
È stato definito dalla critica “intenso e bellissimo”: “L’ABISSO” è il monologo con cui Davide Enia – che con Ascanio Celestini, Marco Paolini e Mario Perrotta è uno dei narratori più significativi della scena contemporanea – torna sul palcoscenico dopo 12 anni di assenza. E sarà a Vicenza all’Astra sabato 16 marzo 2019.
Lo spettacolo è un racconto, urgente e profondo che l’artista palermitano – drammaturgo, attore, regista e romanziere – ha scritto dopo anni trascorsi a Lampedusa a recuperare testimonianze: in un libro, “Appunti per un naufragio”, edito da Sellerio e vincitore del Premio Mondello 2018, diventato nel 2018 uno spettacolo. L’appuntamento, tra i più attesi della stagione, è per sabato 16 marzo (ore 21) al Teatro Astra, all’interno di “Terrestri 2018/19”, la stagione del contemporaneo curata da La Piccionaia Centro di Produzione Teatrale per il Comune di Vicenza – Assessorato alla Cultura con il sostegno di Ministero dei Beni Culturali e Regione Veneto.
Scritto e interpretato dall’attore già Premio Ubu, Premio Tondelli, Premio Hystrio e Premio ETI, “L’ABISSO” è un racconto intessuto di antichi canti di pescatori intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa e melodie a più voci che si intrecciano senza sosta, fino a diventare preghiere di rabbia per i morti in mare, quando questo ruggisce e nelle reti, assieme al pescato, si ritrovano i cadaveri di uomini, donne, “picciriddi”. La voce e il gesto vibrante di Davide Enia si mescolano alle musiche composte ed eseguite da Giulio Barocchieri, mentre il “cunto” palermitano diventa il modo per fronteggiare la difficoltà di raccontare la grande tragedia che quotidianamente tinge di morte il mare Mediterraneo.
“Quando ho visto il primo sbarco a Lampedusa ero assieme a mio padre – racconta Davide Enia -. A guadagnare la terra erano tantissimi, ragazzini e bambine per lo più. Stravolti, stanchissimi, confusi, erano 523 persone sottratte alla morte in mare aperto. Io e mio padre assistemmo a qualcosa di smisurato: era la Storia ciò che stava accadendo davanti ai nostri occhi. La Storia che si studia nei libri, che riempie le pellicole dei film e dei documentari e che modifica la struttura del presente. Vederla accadere mi ha lasciato completamente senza parole”.
Nell’arco di diversi anni Davide Enia ha fatto più volte ritorno sull’isola, costruendo un dialogo continuo con i testimoni diretti, i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori.
“Parlavamo quasi sempre in dialetto, nominando i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della nostra culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, quel vuoto che frantuma la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, ‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice. La miglior parola è quella che non si pronuncia. Dalla registrazione delle loro voci sono emersi frammenti di storie dolorosissime eppure cariche di speranza, nonostante risuonasse di continuo un senso di morte impossibile da gestire da soli. Le loro parole aprivano prospettive e celavano abissi. Avevano le stimmate della guerra”.
“Quanto sta accadendo – prosegue Enia – è troppo smisurato per essere contenuto in una forma unica. Abbiamo lavorato sul cunto spostando l’elemento epico dallo scontro tra i paladini a un nuovo campo di battaglia: il mare aperto, quando il salvataggio è una questione di secondi, le manovre sono al limite dell’azzardo, la velocità di scelta determina tutto quanto e risalta ancora di più come condizione necessaria il sottoporsi quotidianamente a un allenamento costante sulla terraferma, per riuscire a recuperare più corpi vivi in mare, per sopravvivere in prima persona alla forza delle onde.
Lo spettacolo è una riflessione, figlia del lavoro sul campo, per riportare con urgenza nello spazio condiviso del teatro il tempo presente e la sua crisi. Quanto si sta verificando a Lampedusa non è soltanto il punto di incontro tra geografie e culture differenti.
È un ponte tra periodi storici diversi, il mondo come l’abbiamo conosciuto fino a oggi e quello che sarà domani. Sta cambiando tutto. È da più di un quarto di secolo che accade. Chi approda è uno specchio, dentro cui risiede la risposta a una semplice, definitiva domanda: noi chi siamo? Nello sguardo di questi esseri umani è riflessa l’immagine di noi stessi, di chi abbiamo deciso di diventare”.